Il Confronto Home » Cultura » ENRICO DEMMA e la leggenda del Piave

ENRICO DEMMA e la leggenda del Piave

Condividi l'articolo

di Raffaele Bocchetti

Raffaele Gattordo, in arte Enrico Demma, era un talentuoso attore teatrale e cantante , aveva lavorato, negli anni venti, in diversi teatri con la compagnia di Totò e di Cafiero-Fumo raccogliendo ampi consensi con turneè anche in Brasile ove si trasferì per alcuni anni.
Questo artista, durante la prima guerra mondiale, si distinse pure come bersagliere impegnato in prima linea.
La sua arte, le sue canzoni e le sue performances teatrali furono di grande conforto e incoraggiamento per i commilitoni di trincea.
Era molto amico di E. A. Mario, pseudonimo di Ermete Giovanni Gaeta, anche lui napoletano, grande cultore di musica e di poesia.

Tra le tantissime e notissime sue canzoni ne scrisse una di contenuto patriottico, “La leggenda del Piave” che divenne talmente famosa da identificarsi con l’inno nazionale.
A cantarla per la prima volta fu proprio Enrico Demma che la rese subito popolare tra i soldati italiani al fronte, durante la battaglia del solstizio, così chiamata dal poeta Gabriele d’Annunzio e combattuta nel giugno del 1918.
Chi non conosce la leggenda del Piave?
E chi non ha cantato almeno una volta: “ … il Piave mormorò: “non passa lo straniero” ?.
La prima guerra mondiale fu soprattutto una guerra di trincea.
Le trincee, come si sa, erano dei profondi fossati scavati nel terreno, seguendo una linea a zig zag, per meglio proteggere i soldati in caso di esplosioni interne.
Al comando di attaccare, i soldati saltavano fuori e andavano allo scoperto e questo voleva dire, nella maggior parte dei casi, andare incontro alla morte.

Enrico Demma aveva quattro figli e abitava a Napoli in Via Giuseppe Piazzi, una traversa di via Foria, al terzo piano di un palazzo antico con la moglie Pimma, la cognata Gemma e la figlia Anna.Era una persona simpaticissima ed allegra con un bagaglio di conoscenze e di esperienze di vita che pochi possono vantare.

Lo conobbi intorno agli anni 70 e subito diventammo amici probabilmente perché ci accomunavano l’amore per la musica, per l’arte e per Napoli.
Spesso, andavo a trovarlo, trascorrendo insieme intere serate durante le quali mi intratteneva piacevolmente con racconti affascinanti nei quali si intrecciavano ricordi, cronache e gustosissimi aneddoti mondani.
Gioviale, sempre pronto a regalarti un sorriso, una battuta, una barzelletta.
Aveva vissuto in prima persona gli anni di avvenimenti sensazionali della storia artistica e sociale di Napoli e d’Italia, ma il periodo della sua giovinezza, vissuto in prima linea sul fronte austriaco, lo perseguitava.
Quando parlava di guerra diveniva serio e il ciglio gli si aggrottava e scuoteva la testa.
Era stato un ottimo e devoto soldato ma conservava nel cuore e negli occhi scene terribili e indimenticabili di una guerra che lui aveva onorato ma che riteneva assurda, una inutile strage con 650 mila morti e più di 2 milioni di feriti.

La guerra è per tutti un’esperienza troppo traumatizzante per non lasciare dei segni indelebili che, anche a distanza di anni, generano sentimenti di ansia, panico e sensi di vuoto.
Mi raccontò che ancora gli capitava di svegliarsi di soprassalto la notte e di udire le grida strazianti di quei giovani ragazzi feriti a morte che, disperati in un ultimo anelito di vita, invocavano la madre o l’aiuto della Madonna.

Mi disse: “quelle grida, quei lamenti, erano tutti espressi in dialetti meridionali: “mammà!!!; maronna mia!!; matri mia !!; oje maronna.
Una strage di meridionali, siciliani, calabresi, campani e lucani, disposti in prima linea, mentre i reclutati del nord per lo più venivano impegnati nelle fabbriche di armi”.

Che fosse stata una guerra inutile, una “inutile strage” l’avevo sentito dire da più parti, lo diceva il papa di allora, Benedetto XV, e lo sostenevano d scrittori e giornalisti, ma quello che maggiormente mi colpì del racconto di Enrico Demma fu sapere che in prima linea fossero stati schierati massimamente giovani meridionali.

Mi raccontò di notti all’addiaccio con i piedi congelati e dolenti perché immersi nelle pozzanghere e mal protetti da scarponi inzuppati e scalcagnati per la lunga permanenza nell’acqua; di rancio preparato nelle retrovie e trasportato a dorso di mulo; di gavette colme di brodaglia con un po’ di pastina e un pezzo di formaggio.

“ ottimo e abbondante” disse ridendo Demma, riferendosi al film di Monicelli “ la grande guerra”.
Queste sue dichiarazioni, allora, potevano apparire esageratamente marcate, così come spesso sembrano i racconti dei reduci di guerra che, man mano che passa il tempo, ricordano le cose in maniera sempre più dilatata e sovradimensionata.

Un po’ come i ricordi di guerra del reduce Eduardo de Filippo nella commedia “ l’oro di Napoli”.

Ma i suoi racconti vengono confermati da Ernest Hemingway, premio Nobel per la letteratura, diretto spettatore di quella guerra, che così commenta: “ Gli italiani sprecavano una enorme quantità di soldati, la gran parte di quei soldati erano meridionali ed erano considerati carne da macello”.
Per chi non lo sapesse, Hemingway fu autista d’ambulanza volontario sul fronte italiano, nel 1918 venne ferito e per il suo comportamento eroico ottenne la medaglia d’argento al valor militare.

La riprova, poi, ci viene dalla lettura delle lettere che il re d’Italia Vittorio Emanuele III inviò a Garibaldi con la richiesta di giovani meridionali che potessero essere reclutati per la grande guerra.
Vittorio Emanuele era lo stesso che sottoscrisse le leggi razziali, tanto per capirci.

Naturalmente ciò non ha l’intento di procurare idee secessioniste, bizzarre e irrealizzabili in epoca di globalizzazione, ma vuole essere d’incitamento alla conoscenza di una verità storica per troppo tempo occultata e un omaggio al napoletano Enrico Demma, grande artista e grande soldato.

fonte immagine: wikipedia


Condividi l'articolo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *